26 aprile
Dovremo proprio consegnarci prigionieri. D’altra parte i nostri nomi sono già stati consegnati e un fonogramma del comando italiano avverte che saranno considerati disertori gli ufficiali che non si consegneranno agli inglesi.
E’ la resa a discrezione. Sono gli effetti del messaggio che il giorno di Pasqua un aereo aveva fatto cadere su villa Italia. Cunnigham non avrebbe risposto dell’incolumità della popolazione se gli Italiani non avessero accettato la resa a discrezione.
Alle tre arriva un ufficiale Inglese con un camion. Ordine di imbarcarci. Faccio io da interprete. Il capitano è sbronzo: ha una bottiglia di Strega in mano. Protesta che lui è ufficiale e che sul “truck” non ci sale. Vuole la Littorina. Imbarazzato mi rivolgo al tenente inglese; mi meraviglio che accondiscenda e dia ordini in proposito. Arriva la Littorina e ci imbarchiamo. Hanno tutti un monte di bagagli. Io ho una valigia con sì e no tre chili di roba, una coperta, l’impermeabile addosso. Traversiamo Dessiè e scendiamo verso il ponte. Già è saltato. Si sbarca. Passare dall’altra parte. E i bagagli? Gli ufficiali protestano. Non possono fare i facchini. Poi di malavoglia si accingono a trasportare cassette e bauli. Qualcuno comincia a rendersi conto che non ci saranno facchini. Si aprono i contenenti e si sacrifica del peso. Quando tutti son passati anch’io vado. Un ufficiale sudafricano vede che mi è stata lasciata la rivoltella. Mi saluta e me la chiede scusandosi. Poi mi dice in un francese stentato “C’est bien heureux pour vous. Pour vous c’est fini!” e’ un combattente. Ne passerà ancora di brutte ma comincio a invidiare la libertà di un uomo.
Un camion ci porta a Camboleia ai cantieri Puricelli ci ficcano nell’interno dove le stanze son piene di militari in piedi accoccolati seduti sui loro bagagli. Il mio gruppo è in una stanza con una finestra inferiata che dà su un cortile zeppo di soldati indaffarati a cucinare su focolari improvvisati con marmitte che vanno dalla “tanica” di petrolio al “gorgorò” di conserva. E’ ancora giorno.
27 Aprile
Scesa la notte ci mettiamo a dormire. Sono spossato. Mi avvolgo nella coperta. Mi sveglio all’alba. Pronti a partire. Partiranno con gli ufficiali solo gli attendenti. Io avrò tre attendenti perché tutti e tre vogliono andare ad Addis Abeba per vedere di scappare. Ce la facciamo. Siamo in camions separati ma ci siamo tutti. Ci danno una razione di galletta e una scatoletta. Partiamo. Ci fanno scendere ed entrare come pecore in un campo cintato con filo spinato.
Il trattamento comincia a farsi più duro. Io sono molto giù di morale. Mi avvio, non so nemmeno io con quali intenzioni dalla parte opposta del campo. Sono quasi al reticolato quando fischia rabbiosa una raffica. Incasso la testa nelle spalle. Sento un urlo “Come on back!” mi volto. Una sentinella mi fa segno di tornare. Perché non mi ha colpito? Mi vado a stendere in uno stanzone.
28 Aprile
Riprendo coraggio stamane ho osservato i miei compagni di prigionia. Ufficiali superiori fino a colonnello, di tutte le armi, compresa l’aviazione. Molti abbacchiati. I giovani sconsiderati allegri spensierati. La vicinanza fianco a fianco diminuisce il rispetto verso i superiori.
Si parte in mattinata.
Un certo spiegamento di forze. Ma non sono più le truppe combattenti nelle quali non distinguevi i soldati dai graduati dagli ufficiali. Qui l’uniforme li fa distinguere e anche la grinta. Ci sono bianchi e negri. Sudafricani ed australiani. In pochi minuti si raccolgono intorno ai camions scifta [ ribelli etiopi ]che ora si chiamano patrioti e e sciarmutte [ prostitute ]. Ostentatamente gli Inglesi si ritirano lasciando i prigionieri senza sentinelle in mezzo ai patrioti che si addensano sempre più e si fanno sempre più pressanti. Non si sente una voce.
Tutti comprendono la sottile vendetta degli inglesi, anche gli scifta anche le sciarmutte. Qua e là un parlottio un segno. Sono patrioti, disertori di battaglioni o di bande che si fanno riconoscere dai loro antichi ufficiali, sono sciarmutte che chiedono notizie di conoscenti. Rotto il silenzio il ghiaccio si fonde, l’ambiente si intiepidisce, si scalda. Doveva essere così. Italiani e abissini non si voglion male. Lo scifta è un ribelle ma non odia. Le sciarmutte hanno provato l’unione con gli italiani che non sono capaci, malgrado le disposizioni ad essere razzisti soprattutto con la donna abissina che è dolce, graziosa talvolta e fedelissima. Le sciarmutte si infittiscono premono si avvicinano alle murate dei camions. Qualcuna porge scatole di latte di carne, fazzolettate di uova, fiaschi di ciai di “tech” i patrioti lasciano fare: distraggono lo sguardo tiran su la testa sventolando i lunghi capelli a criniera di leone.
Ormai è un parlottare generale diventa vocio si intrecciano richiami. Gli ufficiali si danno da fare per essere precisi di notizie alle sciarmutte che le richiedono. Sui loro amanti amici abissini o italiani. Così in questa fiera ritornano gli Inglesi. Hanno fatto colazione e non c’è stato massacro. E’ mancata la vendetta. A Debra Berhau., la città ribelle, patriota, covo dell’indipendenza scisana una colonna di ufficiali italiani è stata lasciata in pace. Gli indigeni hanno offerto cibo.
Ripartiamo. Arriviamo in Addis Abeba nel pomeriggio. I camion dei soldati vanno da una parte, quelli degli ufficiali da un’altra ma ci fanno girare avanti e indietro per la città. Non ci si attende un trionfo ma nemmeno la più assoluta indifferenza della popolazione italiana che non ci osserva non ci guarda, come se ci rinnegasse. Il fatto non ha importanza.
E’ sera quando il campo Corse, adiacente alla Piazza d’Armi ci accoglie.
29 Aprile
Ci dividiamo nei locali. Stanzoni, camerini, corridoi. Brandine, scaffaloni; c’è da alloggiarsi tutti. Naturalmente gli ufficiali più giovani più intraprendenti, più spensierati si prendono i posti migliori. Io prendo posto in uno scafffalone a due metri da terra e di là osservo i miei compagni. Dalle loro parole sento che sono persuasi che ora comincia un periodo di turismo, una vacanza, un giro per vedere il mondo.
Mi si avvicina con molta cortesia Galbusera. Mi dice che era all’amministrazione della VI Brigata che dalle mie carte ha visto che sono pittore. Anche lui fa il pittore. Tira fuori fotografie e mi fa osservare paesaggi e una testa di Cristo. Dice che ha portato con se la cassetta a olio che lavoreremo insieme. Gli dico di sì, che volentieri lavorerò con lui. E mi sorge violento il desiderio di far qualcosa. Galbusera dice che c’è lì vicino una tipografia. Macchine caratteri carta, tonnellate di carta. Andiamo a vedere. Poco fa temevo mi mancasse la carta. Ora è come se fosse intervenuta la lampada di Aladino. Non desidero altro; afferro qualche foglio e ritorno al mio scaffalone. La mia valigetta di tre chili comprende mine e una matita portamine. Comincio a disegnare quanto mi circonda. Galbusera anche lui lavora, sotto sulla brandina. Poi quando vede i miei lavori allibisce. “E io che mi credevo di essere pittore”. “Va bene lo diventerai”.
4 Maggio
Son passati i giorni senza grandi emozioni. Abbiamo dato le generalità una due tre quattro volte. Si mangia pastasciutta mattina e sera. Giorno per giorno la mensa migliora. Funziona un Comando italiano che dagli Inglesi è definito Ufficio di collegamento. Vediamo un solo ufficiale inglese che è poi sudafricano. Le sentinelle sono del Kenia: Kikuiu. Ci lasciano avvicinare ai reticolati, anche dalla parte della strada. E’ possibile scambiare quattro parole con chi passa.
5 Maggio
Aumentate le sentinelle. Ras Tafari il Negus Neghesti rientra nella sua capitale. Sappiamo che ha fatto affiggere un proclama molto generoso per gli Italiani. Non deve esser fatto loro alcun male. Soltanto per quel giorno la popolazione italiana è invitata a non andare in giro per Addis Abeba. Ricorda che gli Italiani hanno fatto molto per la sua capitale.
L’eco del trionfo non giunge fino alla nostra zona che è periferica ma a notte inoltrata improvvisi colpi di fucile e scoppi di bombe ci mettono in allarme. Un ufficiale inglese ci distribuisce bombe a mano e ci consiglia di difenderci dai ribelli quando attaccheranno in forze. L’attacco non tarda e noi ci troviamo ancora una volta alleati con gli Inglesi per difendere la nostra pelle bianca. Ma è cosa da poco. Gli abissini fanno un pò di fantasia e assaggiata la cordiale reazione non insistono.
8 Maggio
Corrono ad avvertirmi dal reticolato che un’indigena cerca di me. Accorro: è Turemese. E’ contenta di sapermi salvo, anch’io di vederla. Si direbbe che la sentinella kikuiu apprezzi questa famigliarità fra bianchi e negri. Sorride e ostentatamente volge la testa e la persona altrove. Turemese mi chiede di Cantimori. Non ne so nulla, ritornerà.
10 Maggio
E’ tornata Turemese. Mi dice che il figlio di Lig Jasu, Johannes, mi saluta. Mi aiuterà a fuggire, a vivere in boscaglia se voglio fuggire. Gli rispondo senz’altro, ma presto perché temo di essere portato via alla prima spedizione.
13 Maggio
Vedo Turemese. Johannes mi attenderà in Via Lanza e mi farà uscire da Addis Abeba. Sarà per la notte fra il 15 e il 16 Johannes si era sempre dimostrato buon amico degli italiani oltre che amico mio.
14 Maggio
Non vedrò più Turemese. Non si farà più vedere. Non ci sarà fuga romantica. Non sarà difficile eludere la sorveglianza delle sentinelle. Il reticolato non è complesso. Il folto degli eucaliptus ha un salto, via Lanza a un chilometro e mezzo. Conosco la zona come la mia tasca. Ci andrei a occhi bendati. Non ho fatto parte ad alcuno dei miei progetti. Non ho amici tali da potermi fidare di loro. Non mi passa nemmeno per la testa che sarebbe forse più facile affrontare l’avventura in compagnia di qualcuno. Ma con persone che non conosco bene no, non mi fido. Del resto non ho nemmeno bisogno di aiuto per fuggire. E se dovrà andar male non avrò rimorsi per gli altri.
15 Maggio
Gli inglesi mi hanno fregato. Questa sera sono nel campo di concentramento di Dire Dana. Stamane all’alba ordine improvviso di partenza. In mezz’ora siamo imbarcati sulla colonna dei camion che ci porta alla stazione. Prendiamo subito posto sulle vetture passeggeri del treno della ferrovia Addis Abeba – Gibuti. Dame della Croce Rossa ci distribuiscono frittelle di riso e libri. Sono commosse, qualcuna piange. Il treno parte che non sono ancora le sette.
Non la vedrò proprio più Turemese. Non sacramento nemmeno. Il destino ha voluto così. Mi sorprendo a mormorare “Insh’Allah”.
Acachi, Adama, Anase. Ci fanno scendere. Scorgiamo la frattura nel cui fondo scorre l’Anasa e il ponte su cui militari inglesi stanno lanciando un ponte in ferro prefabbricato. Sorpassiamo la frattura e siamo nuovamente imbarcati sui camion. Una sentinella prende posto su ogni camion, all’interno un’altra con l’autista. Gli autisti sono tutti italiani.
Questa sera siamo nel campo di Dire Dana in stanzoni. Ci allunghiamo sulla paglia. Viene vicino a me Valti del VI° Battaglione. Mi dice che si fermerà a Dire Dana come interprete. Ne sono felice. Non ho voglia di parlare inglese. Per me è una missione troppo ingrata e poi mi pare che sia una condizione privilegiata. Non voglio privilegi.
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