17 Maggio 1941
Partiti da Dire Dana. Giungiamo a Harrar. La colonna sosta pochi minuti. Acquistiamo caschi di banane, papaie, manghi. Mai mangiato frutta così saporosa, mai visto indigene così belle. Mai desiderato donne così violentemente. E non solo io.
Lungo la strada sosta in una zona desertica. Scendiamo per sgranchirci le gambe. Non siamo ancora alla fame. Soltanto a sera la colonna si ferma in boscaglia. Passeremo qui la notte. Qualcuno si appresta a far cucina con i viveri in natura che gli inglesi hanno distribuito ad ogni camion (gruppi di 20) alla partenza da Addis Abeba. Viveri per quattro giorni. Un po’ di riso, tre o quattro chili, una scatola di marmellata, un chilo di zucchero, margarina e salsa. Qualcuno manda giù il riso, molti lo rifiutano.
19 Maggio
In strada verso il Somaliland. Appena lasciato il confine italiano la strada, costruita in regola d’arte con opere perfette, diventa pista. Attraversiamo Argheisa. I suoi dintorni pullulano di militari, macchine, magazzini. Enorme quantità d’armi di materiali. La nostra sentinella si è fatta ciarliera. I compagni di viaggio pongono domande. Dove andiamo? come sarà il campo di concentramento? mangeremo bene?
Il sudafricano risponde gentilmente esaurientemente con convinzione. Nel Sud Africa ci aspettano. Siamo loro prigionieri. Loro hanno conquistato il Kenia, non gli inglesi. A Johannesburg andremo. A Johannesburg “plenty diamonds” e fa così con le mani le dita riunite a fuso. Appoggia l’arma alla macchina. Diventa ciarliero. Saremo trattati bene. Tira fuori il portafoglio, fa vedere le fotografie della famiglia e della fidanzata. E’ bella. Bacia la foto. Ride gioviale. Qualcuno fa vedere le sue fotografie. Non le aveva mostrate ai suoi compagni, ma all’inglese sì, perché sentiamo il bisogno di non essere nemici, di non odiarci, che non siamo cattivi né loro né noi.
La strada si perde in una zona rossa bruciata. Niente opere d’arte sugli uadi. Si passa a guado. Termitai a ciminiera rossastri si levano sulla stoppia secca. La pista è polverosa, arsa, calda. Non si scorgono uomini o animali. Qualche acacia che sembra secca. Ad un tratto nelle narici sento odor di salmastro. “Il mare” “Dov’è?” mi chiedono. Non lo so, molto lontano ancora, ma lo sento.
Ci fermiamo dinnanzi a un reticolato. Di fronte una tenda inglese. E’ il “Comando” italiano. Ordine di restare sulle macchine. Osserviamo. Poco distante da me una botte su una camionetta e una lunga teoria di persone si snoda dal suo didietro come un interminabile verme solitario. Fanno riserva d’acqua. Sono uomini ufficiali. Chi ha solo pantaloncini o mutande, chi (pochi) in diagonale, abbottonata, colletto, cravatta, stivaloni. Gavette, borracce. Avanzano rassegnati e stranamente disciplinati. Nel campo si distinguono, disposti senz’ordine, ricoveri o rifugi; non saprei come chiamarli. Roba fatta di tende, di muri ammattonati, pali di legno, sostegni, ma tutta roba bassa. Un uomo sembra un gigante. E la mia abitudine alla prospettiva mi fa vedere la zona, come dire, costruita lontana lontanissima. Si intrecciano domande, non si riceve precisa risposta. Le parole sono fiacche, nessuno grida.
Ordine di ritornare e proseguire sulla pista verso il mare, verso Berbera. Una ventina di chilometri in terra bruciata.
Poi la città. Case basse, pochi militari per le strade. A un chilometro la colonna si ferma. Ci fanno entrare in un campo reticolato vuoto di uomini di case e di cose di materiali. Un’acacia in fondo, una da un lato. Tutti gli ufficiali restano ammutoliti in piedi ad attendere qualcosa.
Senza precipitarmi, non è nella mia indole, mi avvio solo verso l’acacia. C’è un po’ d’ombra, quell’ombra che può dare una rete metallica ma sempre ombra è. Non è possibile che sia questo il campo definitivo. Intanto io mi aspetto di tutto. Ci imbarcano ancora sulle macchine e andiamo sul mare. Verso terra sono tutti campi cintati. Ci giungono grida confuse dalla velocità e dal rumore dei camion. Entriamo in un campo e siamo lasciati così. Comprendiamo che qui ci resteremo. Baracche niente, case niente, posto poco. Ma ciascuno cerca per conto proprio.
Legati al reticolato due teli da tenda. Coperte sulla sabbia, bagagli ammonticchiati. Le notizie sono assurde. Non danno da mangiare; ma si trova dalle sentinelle il mattino pane e poi scatole di latte di carne di sigarette ( a prezzi iradidio beninteso ! ). Di fame non si muore.
L’acqua fortunatamente c’è e anche in abbondanza. Un tubo da un pollice. Basta fare un po’ di coda possiamo anche lavarci. E’ un lusso. Ci mettiamo in cerca di legna per il tè. Ad un tratto mi sbaglio, ho preso un filo di ferro per un fuscello. Ritorniamo per portare la raccolta. Il fuoco si spegne subito. Con la nostra provvista dura due minuti non più. Io cerco di eccitare la fiamma col fiato e mi arriva quasi addosso un sacco di juta. Mi guardo intorno. Certo è la sentinella indiana che me l’ha lanciato, difatti mi fissa con gli occhi senza far gesti, senza far segni. Che accidenti devo fare del sacco? Ragiono vorticosamente. Ho un coltello da boy scout. Taglio un pezzo di sacco. Lo metto nel fuoco. Brucia maledettamente bene. Ringrazio in inglese l’indiano. Che brava gente ! E noi dobbiamo ammazzarci a vicenda. A Keren in quarantott’ore abbiamo distrutto un reggimento di Rajputans Rifles.
Porco mondo che schifo la guerra! Beviamo il the. L’indiano sembra contento. Il mattino verso le quattro vengono dei somali a vendere filoncini di pane. Occorre stare attenti perché qui le sentinelle sparano. I reticolati hanno in basso i rotoli rotondi. Bisogna passarci in mezzo per arrivare ai somali che stanno dall’altra parte, soldi in mano altrimenti niente da fare.
20 Maggio
Stanotte mi son messo nudo come un verme. C’è una fetta di luna verso le tre. Ho visto un somalo con una cesta. Mi son messo undici biglietti da mille in bocca e sono strisciato in mezzo ai circoli. Il somalo ha contato i fogli e ha posato davanti a me undici filoncini di si e no un etto e mezzo l’uno. Mi son ritirato come un gambero spostando poco a poco i pani nella sabbia. Prima di finire di passare tutto il reticolato ho imparato come si fa a stare sulle spine senza farle penetrare nelle carni. Ora non mi graffierò più. Sono arrivato dai miei colleghi con la mia bracciata di pani. Erano tutti svegli. “Offro io”.
22 Maggio
Ieri abbiamo dato fondo alla provvista di riso. Oggi niente. Stanotte prima di andare dal fornaio devo stare attento. Ieri notte dopo aver ritirato il pane sono andato sotto il tubo dell’acqua. E’ quasi fresca a quell’ora. Una pallottola mi è fischiata sul capo. Mi son buttato bocconi e ci son stato un bel po’. Non ho voglia di farmi ammazzare quando non ce ne ho voglia.
23 Maggio
Ci hanno cacciato entro il campo un montone intero, così come si caccia un pezzo di carne a un cane. Gli ufficiali vicini al boccone l’han preso in due e ci han dato il volo ritornandolo al mittente. Quando lo si è saputo nessuno ha detto che han fatto male. Fame per fame! Verso sera ci hanno distribuito pagnotte, riso e marmellata. Non c’è da scialare ma qualcosa abbiamo mangiato.
24 Maggio
Ordine di prepararsi alla partenza stamane all’alba. Permessi 40 libbre di bagaglio cioè 20 chili. E comincia la selezione. Siccome tutti o quasi ne hanno con sè di più, tutti o quasi abbandonano indumenti di ogni genere. A mezzogiorno o poco meno dopo estenuanti appelli e formazioni di gruppi si è pronti a partire. Ordine di mettersi in marcia. E i camion? Ci sono là davanti ma stanno fermi.
Si marcia a piedi ciascuno col proprio bagaglio. La scena mi appare ridicola dapprima, poi diventa pietosa. Il sole di Berbera picchia sodo sulla colonna. I raggi il caldo diventano materiali pesanti, diventano piombo su quella povera gente in uniforme, per lo più pesante. Le file si distanziano prima poi la marcia diventa il progredire disordinato di un gregge con la differenza che qui gli individui cercano di mettere aria fra uno e l’altro. Son partiti quasi allegri di abbandonare quel posto d’inferno. Qualunque prospettiva è migliore della situazione presente. Son partiti allegri portando le cassette, le valigie a mano con correttezza, con dignità. La mancanza di cibo, di acqua, il caldo, fiaccano quel resto di energia.
La colonna si stende verso il porto. E proseguiamo sudati ansanti trafelati boccheggiando fin sulla banchina.
Io in disparte ho abbozzato alcune scene. La memoria sola non potrebbe rendere di più lo sfacelo, l’egoismo l’abbattimento di quel mezzogiorno di Berbera. E per due ore fermi sotto il sole. L’acqua del porto rende salato il caldo, lo fa più umido. Sudore salmastro si suda. E le borracce si vuotano senza precauzione. In poco nessuno ne ha più una goccia.
Ci imbarchiamo su un barcone per il trasporto del bestiame da 300 tonnellate circa. Siamo trecento anche noi uno per tonnellata. Ci fanno scendere nella stiva noi e bagagli. Ci stiamo in piedi, dividiamo lo spazio con dei montoni che son stati caricati più umanamente di noi. Io mi trovo sotto il boccaporto di mezzo che di sopra stanno aprendo mentre comincia la navigazione.
Dove andiamo con questo barco? Non nel Sud Africa. L’equipaggio di colore ci informa. Ad Aden poi in India.
Fa caldo; caldo sale e puzzo di montone e non una goccia d’acqua. Manca l’aria. Ci stringiamo sotto il boccaporto dal quale non piove fortunatamente il sole che è al tramonto. Mi sfilo dalla calca. Metto il viso a un oblò. Almeno il mare odora e non fa quelle facce quei ghigni. Non vedo più occhi sbarrati allucinati. Improvvisamente la calca mi muove, si stringe, si addensa, si dilata, tende verso l’alto, si accascia, risale, ricade. Rantoli più che urli.
Dal margine del boccaporto gli indigeni guardano sorpresi ma non si divertono non ridono. Uno ha teso un bicchiere d’acqua verso il quale si protendono cento braccia e non è che una sete di poche ore.
Quel bicchiere mi fa l’impressione di un brillante. Non ho mai visto qualcosa di più cristallino di più pulito di più fresco. Il puzzo è tremendo. I montoni vomitano per il mal di mare. Il barcone balla un po’ nel Mar Rosso che, per fortuna, non è agitato.
Finalmente ci autorizzano a salire in coperta. Non si vedono sentinelle. L’equipaggio si da un gran da fare per vendere bottigliette di bevande. Birra, acque, gazzose. Beviamo ma la provvista è enorme quanto la nostra paura della sete. Poi è naturale che la sete si calmi e ci si guarda attorno. Noi e l’equipaggio indigeno. Non c’è spiegamento di forze: non c’è o non si vede. Qualcuno lancia l’idea di fare un colpo di mano e costringere l’equipaggio a dirottare su Gedda nel Yemen. I vecchi guardano in tralice ma la cosa prende piede. C’è chi si entusiasma. Penso che basterebbe un nulla perché l’idea diventi proposta, piano che passi all’attuazione. Ma la maggior parte è contraria. E’ spossata affranta, non si sente di ricominciare. Anche gli entusiasti si calmano cedono al sonno fino al mattino in vista di Aden che si presenta nuda, spoglia, atroce. Navi e scogli e sulla sinistra un biancore accecante.
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