DIARIO DI GUERRA 10 – Destinazione Kenia

25 Maggio 1941

Sbarcati, siamo rapidamente trasportati attraverso quel biancore. Sono le saline. Un paesaggio olandese lunare con quei mulini a vento che aspirano acqua dal mare per immetterla nei riparti che il sole penserà a prosciugare fino a che un deposito di sale non si sia formato. Il campo è lì vicino. E dietro a noi il deserto  dell’Hagramuth infinito, vuoto, pauroso.

Sentinelle indigene. Individui piccoli, il viso incorniciato da baffi e barba completi, lineamenti regolarissimi capelli lunghi che cadono inanellati sulle spalle. Con loro stringiamo subito rapporti di compravendita. Strano. Qui hanno valore un valore impensato le monete da cinque lire. Con una, un pacchetto di sigarette. Io ne ho parecchie. Compro tutte sigarette.  Ci sono tende, quelle inglesi da otto a sufficienza. A doppia tenda di sopra con i bordi rilevati. In ogni tenda, a fianco di uno dei pali di sostegno, una giara di terra cotta colma di acqua che trasuda fresca.  Non si può dormire perché il sole arrostisce anche all’ombra. C’è uno spaccio che funziona. Vendono di tutto. Penso che i miei tre chili di bagaglio possono aumentare.

27 Maggio

Gli inglesi stanno mettendo un po’ d’ordine fra i prigionieri. Generalità ancora svariate volte e svariate volte veniamo contati come i montoni passando da un recinto all’altro. Ognuno riceve la sua matricola. Io sono il P.O.W. [ Prisoner Of War – nel gergo militare, in inglese, è prigioniero di guerra ]

28 Maggio

Riceviamo la paga in rupie. Dal 24 aprile a oggi. L’amministrazione è perfetta. A me spettano 16 rupie.  Ma tutte le rupie di tutti i prigionieri passano per lo spaccio. Domani si parte. In complesso la permanenza a Aden non è stata deprecabile. Acqua a volontà per bere e acqua salmastra per lavare e lavarsi con sapone solubile nell’acqua salata. Le sentinelle non sono severe e gli ufficiali se non cortesi, compiti. Pare che la destinazione sia l’India.

29 Maggio

Stamane all’alba abbiamo ripercorsa  la strada verso il porto per l’imbarco. Abbiamo rivisto gli enormi depositi di carburante, decine e decine, che secondo i bollettini italiani avrebbero dovuto essere combusti, distrutti, annientati.

La montagna di Aden incombe sul porto. Deve essere tutta una caverna. Ricordo che in Algeria alcuni operai biellesi nel 1934 mi avevano raccontato in quale modo lavoravano nelle viscere di quella montagna.

Nella rada l’acqua immobile solcata da righe punteggiate. Il campo minato. Una ventina di navi da trasporto. Altre da battaglia. E’ un convoglio in partenza. Siamo fatti imbarcare su  una nave da 27000 tonnellate e subito rinchiusi nelle stive. Dove sono io siamo in cento. Fortunatamente sopra il pelo d’acqua. Gli oblò sono aperti. Ci sono anche bocche d’aria, altrimenti si crepa. Il convoglio lascia il porto prima di mezzogiorno. Il mare è calmo. Nella mia stiva non c’è che pareti soffitto e pavimento. Qualcuno ingenuamente attende brande, amache, coperte.

Nessuno si fa vedere fino alle quattro. A quell’ora ci incolonnano e, aperte le porte, ci fanno scendere giù dove sono i refettori. Cento alla volta. Ci versano, in gamellini bianchi maiolicati, qualcosa che sembra the e latte con una fetta di pane morbido bianchissimo di 50 grammi circa. Cominciamo bene.  Il caldo è sostenuto. Giudico che qui sotto non ci sono meno di 45° il sudore cola nei gavettini. Il the è bruciante ma bisogna ingollare perché le sentinelle urgono di far presto. Risaliamo e ci stendiamo in attesa della cena. Resta con noi una sentinella baionetta in canna. Inglese. Inutile cercare di attaccar bottone. Fa la faccia feroce. Se uno insiste ti spiana la baionetta al petto. Alla larga. Quando annotta si ritira.

30 Maggio

Alle sei tutti sul ponte. Mitragliatrici puntate, sentinelle con baionetta in canna. Procediamo in convoglio. Le navi da guerra fanno la spola ai lati. Il tempo è buono. Dopo l’ora d’aria ridiscendiamo. La stiva è stata lavata, ancora umida. Nessun riguardo a coperte, tele, bagagli. Poi colazione. Come ieri pomeriggio. Ma stamane ci andiamo quasi nudi. Il caldo è aumentato.

Dalle nostre osservazioni procediamo verso sud-ovest. Si vede che i convogli per l’India che è a est seguono rotte speciali. Alle undici seconda colazione. Cinquanta grane di riso e un pezzo di carne o pesce. Le mie conoscenze anatomiche mi permettono di individuare nel mio pezzo un’ala di gabbiano. E the e la solita fetta di pane bianchissimo.

31 Maggio

Non ho voglia di parlare. Sto allungato in un continuo dormiveglia. Chi gioca, chi canta, chi discorre, chi litiga, chi cerca di prevedere, di far progetti.

2 Giugno

Pare che la rotta sia decisamente per ovest. Il sole si leva quasi a poppa. Si vede che ci portano in Sud Africa. I contatti con l’equipaggio sono impossibili, salvo qualche rara visita degli indigeni. Oggi il mare si è messo al brutto. Nell’ora d’aria del pomeriggio Dodero e qualcun altro si mettono a cantare strofette su Mussolini e l’Inghilterra. Dodero si accompagna con la fisarmonica. Di sopra dal ponte di Comando ufficiali inglesi osservano impassibili.

3 Giugno

L’ora d’aria di stamane è stata movimentata. Il  tenente Raimondi veterinario emiliano appena salito sul ponte e giunto nella zona assegnataci vomita sul ponte. Un ufficiale inglese manda giù un marinaio baionetta in canna. Si dirige preciso verso Dodero e gli fa segno di pulire per terra. Dodero gli dice in genovese “Mi? Mi  nue” e non si muove. Il marinaio pronuncia qualche parola in inglese. Dodero fermo. Un ordine dal ponte di Comando. Il marinaio fa un a fondo con la baionetta contro il petto di Dodero che si scansa e viene colpito al braccio. Siamo fatti ridiscendere. Dodero è portato in altra parte.

Niente aria nel pomeriggio. Gli oblò vengono imbullonati dall’equipaggio. Luci spente. Pare che il convoglio si sia sciolto. Sottomarini giapponesi?

6 Giugno

Viaggiamo da 3 giorni rinchiusi solo con l’aria delle prese. Dagli oblò spruzzati dal mare in burrasca non si vedono più navi. Io devo star coricato altrimenti soffro il mare. Tutti più o meno pensiamo quanto sarebbe atroce se un sottomarino giapponese silurasse la nave.

7 Giugno

Il mare è molto agitato ma stamane hanno concesso l’aria e riaperto gli oblò. Non c’è nessuna nave in vista. Si vede che l’allarme è cessato ma il convoglio si è sciolto. Il pomeriggio non salgo per l’aria. Resto in stiva. Ci sono anche altri tre. Un sergente inglese viene e mi lascia una mezza dozzina di arance. Grazie. Le scaglio agli altri.

8 Giugno

Ci dicono di prepararci a sbarcare. Siamo sul ponte con i nostri bagagli. Scorgiamo vicina terra. Poi entriamo in un larghissimo canale e perveniamo in un porto meraviglioso. Non molto capace e attrezzato ma con anse accoglienti, vegetazione varia floridissima che attenua il caldo equatoriale. Mombasa.

Mentre scendo dallo scalandrone scorgo il tenente che ieri mi ha dato le arance. Traggo dal taschino la penna stilografica e gliela porgo con un “Thank-you”; mi stringe la mano con un sorriso “Good luke”.

Incolonnati ci accompagnano in un recinto vicino dove rapidamente ci fanno una rivista ai bagagli e procedono alla completa disinfestazione seguita da una potente doccia. L’asciugamano è la sola cosa che possiamo portare con noi. L’asciugamano mi permette di trafugare i miei biglietti che altrimenti passerebbero all’autoclave. Nella rivista mi sequestrano il coltello da boy scout. Subito dopo ancora incolonnati per procedere a piedi. Un sergente in testa alla colonna e poche sentinelle armate. Gli inglesi sanno che nessuno ha voglia di scappare. Dove andare? Ogni tanto il sergente inglese urla di accelerare. I quattro di testa vanno senza forzare e lasciano che il sergente faccia il gesto di scudisciare. Dopo la città la strada si snoda in mezzo a una foresta di palme da cocco, di sicomori, manghi, dracene, jacarande avvinte confuse da liane pendenti e sorgenti da un’erba alta due metri.

Qua e là abitazioni di indigeni. Casette in mattoni d’argilla con tetto di stoppia. Non fa un caldo eccessivo. La marcia è abbastanza agile. Perveniamo al campo di Chingawni. Ci sono altri prigionieri. Siamo fatti entrare senza tanti complimenti, rinchiusi e lasciati liberi di prender posto. Grandi capannoni dalle pareti e dal tetto di paglia ci ospitano. C’è una mensa che funziona, frutta a volontà che offrono le sentinelle kikuiu fuori dal reticolato, manghi, banane avocadi. I cocchi li abbiamo nel campo e occorre stare attenti che non cadano sulla testa. La prima notte dormiamo per terra. Il terreno è sabbioso.

9 Giugno 1941

Partito uno scaglione, ci sistemiamo in un baraccone . Finalmente si può respirare. Anche se questo è un campo di passaggio la meta definitiva non potrà essere lontana.


Il diario  finisce così.

Balbo viene internato nel campo di concentramento di Eldoret, nelle vicinanze di Nairobi, fino alla fine della guerra.

In prigionia, riprende la sua attività artistica: realizza opere per i vescovadi di Nieri – Kenia (1942) e di Kisumu – Tanganica (1943); crea una scuola di pittura e scultura per i compagni che desiderano accostarsi all’arte.

Uno di loro, Domenico Rapisardi, ricorda quegli anni:

Dentro baracche coperte di foglie di palma ciascuno tentava di saggiare e riconoscere le proprie capacità personali, sapendo che per sopravvivere e per ricominciare non restava che contare su di esse.

Ricordo che in questa atmosfera angosciata visitare Balbo e vederlo lavorare dava un senso di calma e di sicurezza confortanti. In qualsiasi ora del giorno ci recassimo da lui (egli non rendeva visita a nessuno) lo trovavamo seduto accanto al suo lettino da campo intento a dipingere, a disegnare, a modellare l’argilla, con l’attenzione ed insieme con la smemoratezza di chi scava in se stesso traendone continuamente inaspettati tesori.

“Balbo era tutto là, in questo colloquio intimo che lo staccava dalle vicende che ci stringevano il cuore, simile ad una noria che in mezzo al deserto tragga ad ogni secchio un po’ d’acqua pura e fresca e ciò senza soste e senza stanchezza.Se interrompeva il suo lavoro era per insegnare ai suoi allievi (di cui alcuni oggi hanno nomi ben noti) come si fa a dipingere.

Insegnava con calma, con pazienza, interpretando la incerta personalità dei discepoli nell’intento di potenziarla, purificandola dalle scorie esteriori.”

Nei prossimi articoli saranno pubblicati alcuni lavori e studi realizzati dal 1942 al 1945.

 


© Archivio Balbo 2018

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